27 Settembre 2017
Lo studio inglese sulle foto di minori in Rete, prontamente reso pubblico in Italia dall’Associazione Meter, pone un’ulteriore questione all’attenzione della comunità educante, forse sconosciuta all’opinione pubblica, ma già monitorata da tempo dagli educatori del web: il bisogno indotto di comunicare se stessi attraverso le immagini.
Che si voglia condividere parte della propria vita con gli altri, di per sé, non è un male, anzi, nella costruzione di autentiche relazioni, l’intenzione va incentivata. Ciò che rende perplessi è il significato attribuito a questa pratica, a volte in dissonanza con un’adeguata consapevolezza del gesto compiuto. In altre parole, ci chiediamo, quanti sono pienamente coscienti di quello che comunicano di se stessi e della loro vita, quando condividono foto personali su facebook?
L’immagine innocente del bagnetto del neonato, gli scatti al mare dei propri figli, i video di bambini che giocano nel parco, possono diventare materiale di consumo facilmente accessibile alle lobby di pedofili presenti in Rete.
Ogni immagine, infatti, è portatrice di un universo simbolico che può essere oggetto di interpretazione equivoca da parte di menti malate. Un corpo seminudo può ricordare il bambino Gesù nella stalla di Betlemme e quindi evocare nobili sentimenti spirituali, ma anche stimolare la contemplazione del corpo ed il desiderio perverso di atti pedopornografici.
Come porsi rispetto a questa possibilità? La realtà purtroppo concreta del fenomeno ci costringe a parlarne. Ecco un paio di considerazioni per iniziare ad improntare una possibile educazione alla condivisione.
La mia libertà, lì dove in coscienza penso di non stare compiendo nulla di male, non può essere limitata dalla possibilità remota che qualcuno possa approfittarne. È una prima giustificazione, questa, che spesso si sente quando si mette in guardia da certi pericoli. Ricorda un po’ la posizione delle donne violentate, rispetto all’accusa di aver provocato: “non è detto che perché indosso la minigonna tu sia autorizzato a stuprarmi”.
Il ragionamento è valido, ma non può essere isolato. Bisogna fare i conti con la realtà e, allora, finché ci sarà una sola possibilità che la foto del proprio figlio possa essere utilizzata per stimolare gli istinti sessuali del perverso di turno, un genitore responsabile dovrà valutare bene cosa rendere pubblico. Come, infatti, ha dichiarato don Fortunato Di Noto (nella foto sopra) in un’intervista, “non c’è nulla di male nel condividere il faccino sorridente del proprio bambino. Il problema però si scatena quando ad essere diffusi sono scatti di nudità o nei quali i vostri figli, neonati e non soltanto, assumono determinate posizioni. Il pedofilo cerca costantemente tutto questo, una volta quindi arrivato alla fotografia del bambino, in lui crescerà il desiderio sessuale di possederlo”.
Un’altra tentazione da evitare in tal senso, riguarda l’esasperata fiducia nei filtri che il social network può offrire all’utente: i gradi di visibilità possono essere controllati e gli “amici” sono selezionati. Si tenga presente che tra le lobby di pedofili non mancano fini intelligenze impegnate ad offrire strumenti di supporto per decodificare codici e/o penetrare aree protette. Inoltre, non si dimentichi che molte delle violenze sessuali denunciate sui minori, si sono consumate nell’ambito di una cerchia di parenti, amici e conoscenti spesso più ristretta anche della propria rete di contatti.
Concludendo, condividere foto di minori, soprattutto se neonati e fanciulli, anche se non è “inappropriato” secondo le logiche di facebook, resta un’azione da evitare o, almeno, per quanto è possibile, da compiere con molta prudenza.
A.G.
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