31 Ottobre 2024
di Alessandro Grimaldi –
Un viaggio alla scoperta della vita
Parthenope per pochi, che per comprendere non devi solo nascere a Napoli, ma devi anche lasciarla andare, per poi riprenderla e vivere l’esperienza profonda della solitudine, poiché di forte come la morte c’è solo l’Amore.
Parthenope che, come da leggenda, nasce dalle acque, è la chiave di lettura, apparentemente più scontata, per interpretare la rappresentazione simbolica di Napoli, secondo il vangelo di Sorrentino.
Parthenope, dove fai fatica a comprendere il confine tra immanenza e trascendenza e così, come Napoli, più la scopri e più l’avvolgi di mistero, più la copri e più la metti a nudo, più la ami e più ne abusi.
Parthenope, dagli occhi spenti e la libertà accesa, al punto tale che dopo essere attratta dal Cristo in croce, si spoglia in primavera, come la Napoli del ’68.
Parthenope in carrozza, per dare un ordine alla nobiltà dei suoi pensieri, per trascinarsi dietro la morte, per esprimere la gioia di una passione che si colora di azzurro solo a Napoli.
Parthenope tra i banchi dell’università, ricerca l’umano, ma non lo sa; osserva in modalità partecipativa la società e l’avverte solo in parte; vive ciò che studia e studia ciò che vive, come solo Napoli sa fare.
Parthenope fuma troppo, da sempre, mentre guarda sé stessa da una terrazza e, quando sembra che il Vesuvio si sia fermato, ritorna il pericolo a ricordarti chi è Napoli.
Parthenope osserva e pensa, cosa non si sa, ma si intuisce da uno sguardo, una smorfia, un sorriso … una lacrima. Si muove tra ricchezza e povertà, miseria e nobiltà, lussuria e castità e, ogni volta, resta in silenzio dinanzi a Napoli.
Parthenope flirta con la mafia, si fa sedurre, ci fa sesso, incrocia il suo sguardo con l’innocenza violata, per poi essere lasciata al suo destino di città che rinuncia ad essere madre.
Parthenope è quella bellezza che “come la guerra spalanca le porte”, per amore, per passione, per il piacere di accogliere chi, come in passato, l’ha conquistata e, negli ultimi tempi, l’ha abitata.
Parthenope studia le frontiere culturali del miracolo e si pone al confine tra fede e devozione, religione e tradizione, solennità e folclore. E qui avviene la vera violenza, quando, per Sorrentino, Napoli è sedotta da chi, rappresentante della Chiesa, ormai ridotto in mutande, esprime la sua impotenza, limitandosi a penetrare con mano il mistero del miracolo (o della truffa), perché “bisogna avvicinarsi lentamente a Dio” per provare più piacere.
Parthenope, in effetti, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non seduce, ma si lascia sedurre da ogni realtà che incontra, poiché, nata dalle acque, sa tuffarsi tutta, anima e corpo, in ciò che vive. Perché, in realtà, Napoli è il luogo migliore per comprendere cosa sia l’antropologia, a patto che si sospenda il giudizio reciproco. Allora si scopre che l’antropologia è vedere e che si incomincia a vedere quando ti accorgi che ti manca tutto il resto, anche l’amore.
Parthenope, infatti, è da tempo che non abbraccia il padre. Lo farà abbracciando l’antropologia, l’unica che le resterà per tutta la vita fedele, fino alla fine, quando ormai all’età della pensione, dopo aver insegnato la vita, farà ritorno a casa e quella carrozza da favola della sua gioventù avrà finalmente il volto di un vecchio carro in festa, colorato d’azzurro.
Questa è Parthenope … “triste e felice, determinata e svogliata, viva e sola”.
L’accusa di blasfemia
Interrompo lo stile narrativo utilizzato fin qui, per esprimere il mio punto di vista personale sull’ennesima accusa di blasfemia. Una tendenza ormai diffusa, che ritroviamo ogni qual volta si utilizza il linguaggio simbolico per riferire un concetto che, proprio perché espresso attraverso il simbolo, vuole rimandare ad un concetto più astratto e distaccato rispetto al significato che, invece, si dà all’oggetto in quanto tale.
La scena incriminata è quella dell’incontro tra Parthenope e il vescovo della città, ossia tra Napoli e la Chiesa, per dirla alla maniera evangelica, tra il gregge e il suo pastore.
La chiave di lettura per comprendere il messaggio e, quindi, valutare l’ipotetica intenzione blasfema, è comprendere che sono posti a confronto due simboli che vogliono rappresentare Napoli e la Chiesa, ossia una donna di nome Parthenope e un uomo nelle vesti di un vescovo.
Cosa accade? Quale contenuto si vuole rappresentare?
La Chiesa, refigurata nell’icona del vescovo, da un lato si alimenta di devozione, di fede sensazionalista, di miracoli annunciati e, in pochi casi, rimandati; dall’altro, si spoglia e resta in mutande dinanzi ad una città, un popolo, che ha alimentato il tesoro di San Gennaro con la propria devozione e che, quando prova ad indossare il suo oro, che ormai non gli appartiene più, copre la sua vera bellezza. Un tesoro che, in quanto tale (ricchezza), tenta la Chiesa, accusata di essere ricca nonostante predichi la povertà; una città che, contestualmente, continua ad essere violentata dalla Chiesa, che arriva a dire ai giovani che la ‘semplice’ masturbazione è proibita e, intanto, la pratica mentalmente e lentamente, con la scusa di avvicinarti a Dio.
Nulla di originale, a mio modo di vedere, se non per il linguaggio iconico utilizzato che, come già scritto sopra, bisogna conoscerlo per comprenderlo. Del resto, fin dalle origini del pensiero cristiano, scrittori, teologi e, a volte, santi uomini, hanno ricalcato la duplice natura di un popolo che, prima nell’antico testamento e, successivamente, con la nuova alleanza, si è mostrato, in più occasioni, traditore.
Esiste una letteratura cristiana millenaria che, in diversi momenti della storia, ha ribadito questa duplice dimensione della Chiesa, divina ed umana, santa e meretrice.
Non ci scandalizziamo, infatti, quando la bibbia (Parola di Dio per i credenti) racconta di orge e depravazioni varie da parte del popolo eletto e accogliamo con audacia teologica quanti, in modo diverso, nella tradizione cristiana, hanno definito la Chiesa santa e peccatrice. Non dovrebbe imbarazzarci, allora, una scena che, con un linguaggio diverso, esprime lo stesso concetto.
Ribadisco che, a mio modestissimo parere, non si tratta di blasfemia, ma semplicemente è stato utilizzato un linguaggio diverso, diffuso nel cinema d’autore, che è appunto quello simbolico, per esprimere un concetto, una visione di Chiesa, comunemente diffusa nell’opinione pubblica, credente o meno. Si può discutere, poi, se i segni utilizzati siano di cattivo gusto o offensivi, concludendo che si sarebbe potuto rappresentare il concetto in altro modo, ma questo è un discorso diverso, che non c’entra con l’accusa di blasfemia.
Del resto, Paolo Sorrentino ci ha abbondantemente abituati a questa visione dicotomica di Chiesa con la serie The Young Pope, dove le pratiche sessuali di qualche cardinale non hanno assolutamente provocato indignazione, nonostante già fosse presente questo stile un po’ ‘spinto’ e a tratti volgare.